Il Circolo Universitario Antonio Greppi è un Circolo ambientale dei Giovani Democratici di Milano.

Il Circolo nasce per fornire a tutti gli studenti e dottorandi, milanesi e fuorisede, un polo di aggregazione sociale, costruzione politica e promozione culturale incentrato sulle competenze e i saperi peculiari del mondo universitario milanese. Il Circolo Universitario è aperto alla partecipazione di tutti gli studenti universitari, senza alcuna discriminazione rispetto all’Università di provenienza.

Il Circolo Universitario è intitolato ad Antonio Greppi, il primo Sindaco della Milano liberata, scelto dal CLN nel 1945 per ricostruire la città dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale e ricordato dalla Cittadinanza per aver adempiuto al difficile compito ponendo la cultura come tratto saliente di una rinascita civica e civile.

sabato 27 aprile 2013

Argomenti impopolari contro tesi popolari

Fonte: Daidaidai


L’elezione del Presidente della Repubblica rappresenta il punto più basso della parabola democratica degli ultimi anni. La candidatura di Franco Marini, affossata dallo stesso partito che si era preso l’incarico di presentarlo al Parlamento come candidato unificante per tre delle quattro principali forze politiche italiane, è considerata dalla stampa e dall’opinione pubblica, in modo particolare da quella di sinistra, il più disastroso errore di una dirigenza ora dimissionaria. Partendo proprio da questa considerazione potrebbe essere interessante domandarsi il perché una scelta operata dalla classe dirigente di un partito sia stata immediatamente percepita come un tragico errore da parte della base del partito stesso, e può a sua volta essere interessante analizzare la percezione negativa che questa classe dirigente è riuscita a dare di se stessa anche nei giorni immediatamente successivi, con l’affossamento della candidatura di Romano Prodi e la convergenza sull’anomala rielezione del Presidente uscente. Da questa riflessione si potrebbe trarre alcuni interessanti argomenti per la confutazione di tesi ormai molto popolari presso l’opinione pubblica.


1) La prima delle tesi da confutare è, scomodando Nanni Moretti, che “con questi dirigenti non vinceremo mai.” Certamente, nell’ambito della contingenza, con i dirigenti democratici attuali non vinceremo e non abbiamo nemmeno vinto in passato. Quello che tuttavia non è chiaro a chi scrive è il perché, come invece suggeriscono da più parti dentro e fuori al Partito Democratico, una nuova classe dirigente caratterizzata unicamente da un’età anagrafica inferiore a quella degli attuali esponenti di spicco dovrebbe invece garantirci una vittoria elettorale. Il problema è più complesso di quanto non appaia superficialmente, poiché non appena proviamo a immaginare una nuova classe dirigente ci scontriamo accademicamente con il problema della forma-partito e con la straordinaria questione della selezione della classe dirigente stessa. In Parlamento abbiamo assistito a due dinamiche parallele: deputati e senatori scelti con il metodo delle primarie, dovendo rendere conto delle proprie scelte direttamente alla base del partito, si sono opposti alla candidatura di Franco Marini, inviso alla base stessa. Deputati e senatori forti di altri tipi di radicamento interno al partito (“signori delle tessere”, “eminenze grigie”, “ideatori di think tanks”, ”capibastone” e “presidenti di fondazioni” sono alcune delle categorie politiche scomodate dalla stampa per descrivere la galassia delle correnti democratiche) hanno invece votato a favore dell’ex sindacalista della CISL. Nessuna delle due soluzioni è accettabile a priori: la prima perché non ha reso gli eletti del PD, quindi la massima espressione possibile del partito stesso, una vera e propria “classe dirigente” capace di prendere decisioni anche scomode e non immediatamente comprese dalla base in nome della propria indiscussa e riconosciuta autonomia e capacità di giudizio. Una classe dirigente, insomma, incapace di dirigere e indirizzare la base stessa. La seconda soluzione non è in egual modo accettabile, perché perde completamente di vista la realtà effettiva del Partito Democratico e la realtà italiana nel suo complesso, nelle quali il proprio ristretto feudo congressuale non ha alcun peso, alcun riconoscimento, alcun seguito e tanto meno alcuna autorità riconosciuta. Viene a mancare, in sostanza, un procedimento di selezione della classe dirigente capace di rendere gli eletti al Parlamento la massima espressione di una cultura politica, di una tradizione, di un particolare mondo quale è quello del Partito Democratico o, più in generale, della sinistra italiana. Gli eletti al Parlamento, a differenza di quanto accaduto nelle prime legislature della storia repubblicana, non sono riconosciuti dalla Società e dalla base dei partiti come punti di riferimento politico, morale, culturale e civile tali per cui si è disposti, in quanto comuni cittadini, a delegare, come vorrebbe il principio costituzionale della democrazia rappresentativa, la propria sovranità e affidare scelte politiche di difficile comprensione relativamente al Governo, alla legiferazione e all’amministrazione della Cosa Pubblica. La selezione della classe dirigente è una questione dirimente per il funzionamento stesso della democrazia, ed è compito dei partiti trovare le forme e i modi opportuni perché questo avvenga. Le primarie per la scelta dei candidati non possono essere la foglia di fico dietro a cui nascondere la mediocrità diffusa, ma devono semplicemente essere l’espediente per aggirare la vergognosa legge elettorale vigente, che impedisce ai cittadini di scegliere direttamente i propri candidati impendendo l’espressione di un voto di preferenza o la scelta all’interno di un certo numero di candidati nell’ambito di un collegio uninominale. Le primarie, quindi, sono uno strumento di selezione degli eletti, non della classe dirigente. Il percorso dovrebbe iniziare ben prima della battaglia per la conquista di un seggio alla Camera dei Deputati: un partito sicuro della propria funzione non avrebbe remore nel difendere l’idea che la politica sia una occupazione che consente di acquisire solo ed esclusivamente nel corso del tempo, sommando esperienze amministrative e politiche, le capacità per l’espletamento della più sacra mansione repubblicana, la rappresentanza parlamentare. Come accadeva nei partiti di massa della Prima Repubblica.
2) “Nella Prima Repubblica però erano tutti ladri.” Per “Prima Repubblica” si intende un periodo della storia repubblicana che ha inizio con i lavori dell’Assemblea Costituente nel 1946 e termina con le elezioni politiche del 1994. La Repubblica Italiana nasce dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale ed è inesorabilmente figlia di un ventennio dittatoriale che ha portato un Paese già fragile ad una condizione di arretratezza economica, sociale e culturale spaventosa. Una condizione probabilmente irrimediabile se la classe dirigente dei partiti antifascisti, formatasi nella clandestinità e a contatto con esperienze politiche e culturali europee, atlantiche e sovietiche, non avesse avuto un tale livello di lungimiranza e capacità da dotare l’Italia di una Costituzione tra le più avanzate al mondo e avviare una ripresa economica e una ricostruzione sociale tali da portare il Paese, in un arco di trent’anni, ad essere una delle prime sette potenze industriali al mondo. Possiamo quindi focalizzare l’attenzione sul periodo che chiude la cosiddetta Prima Repubblica, gli anni Ottanta, e nei quali probabilmente l’opinione pubblica individua quell’esplosione di marcescenza e corruzione tali da giustificare il non rimpianto del sistema politico partitocratico. La corruzione e il malaffare all’interno dei partiti italiani raggiunge proprio in questo decennio dei livelli allarmanti, e sarà poi scoperchiato con le indagini del 1992 condotte dal pool di Mani Pulite. Eppure la colpa di questa esplosione di malaffare è erroneamente ricondotta all’eccessivo appesantimento degli apparati di partito, mentre è invece evidente che soltanto laddove un partito sia perifericamente fragile e scalabile da qualsiasi arrampicatore e opportunista si possano creare le condizioni di proliferazione di clientelismi illegali, tangenti, concussioni. Lo spiega perfettamente Giuliano Amato nel 1992, da Presidente del Consiglio in carica ed esponente di spicco del PSI, relativamente agli arresti di Tangentopoli:
 “La colpa del partito non è di essersi preso i soldi, ma di aver imbarcato quella gente che riceve i soldi. Il partito non ha preso denari. […] Dopo che ci siamo sciolti dai “giuramenti”, dal gramscismo, dal togliattismo, dal dogmatismo e da tutti gli –ismi, molti marpioni dissero: “Questo è il partito che fa per noi!” Il partito della modernizzazione, dell’attico, delle vacanze, della propria vita privata e non del Paese. Moltissima gente, nella fase in cui noi sembravamo essere il carro del futuro, entrò nel partito in nome del suo privato. La nostra vera colpa è stata quella di non aver collocato Minosse all’ingresso, e di averne lasciati entrare tanti quanti è bastato per trovarci volta a volta nella situazione in cui siamo ora a Milano”[1]
E infatti i grandi partiti che per un cinquantennio hanno gestito il sistema economico del Paese si sgretolano in pochi mesi sotto i colpi incrociati delle Procure e della stampa. Esiste una diretta proporzionalità tra la debolezza dei partiti, debolezza causata dalla personificazione della politica e dall’incapacità conseguente di formare una nuova classe dirigente, e la loro pervasività clientelare, e proprio negli anni Ottanta assistiamo al crollo delle ideologie da un lato (e quindi la perdita del maggior collante per l’immenso Partito Comunista Italiano) e all’estrema personificazione dall’altro (Craxi e il craxismo). Pare quindi che archiviare la Prima Repubblica come un’unica lunga esperienza di malaffare sia una forzatura storica se non un deliberato e risibile tentativo ideologico e revisionista. Per citare Massimo D’Alema, “la storia d’Italia non è stata una successione ininterrotta di crimini.”[2]

4) “Con la cultura non si mangia.”Nella Seconda Repubblica abbiamo assistito invece alla glorificazione (mai accompagnata da sostegni effettivi) delle Piccole e Medie Imprese (PMI), una galassia di microscopiche aziende insediate soprattutto nel Nord più avanzato e capaci di imporre un modello di stile e di gusto eccezionalmente apprezzato dai mercati esteri, il made in Italy. Questo fenomeno tuttavia risale agli anni Settanta del Novecento, ed è stato reso possibile da una immane mobilitazione sociale, un impulso di classi medio-basse verso l’alto che ha messo in moto uno straordinario sforzo imprenditoriale consentito non solo dall’apertura dei mercati, ma soprattutto dal sostegno della politica e dalla formazione culturale e di know-how alla base dell’impulso. Il declino delle PMI sembra accompagnarsi al declino della classe politica italiana, non più capace di sostenere questo straordinario sforzo sociale e culturale con politiche adeguate. E forse questo dipende dal parallelo indebolimento culturale delle classi dirigenti stesse, poiché non hanno meccanismi di selezione in grado di premiare né la competenza né la preparazione. In un Paese in cui la politica sembra ormai appannaggio esclusivo dei medici, degli avvocati e dei giornalisti, e in cui il politico di professione è considerato un mantenuto o, più spesso, un ladro, non ci si stupisca se non si è più in grado di governare il cambiamento della società e il bisogno di innovazione. Il mondo intellettuale ha proposto argomenti alla politica fino a quando la politica li ha richiesti per farne elaborazioni, poi non ne ha più avuto bisogno poiché ha cessato di rendere pratica di governo una teoria ideologica, filosofica o politica, per cimentarsi unicamente nel deludente pragmatismo post ideologico. Le uniche conseguenze tangibili registratesi finora sono la decadenza e l’aridità, e non saranno probabilmente le primarie a risolvere il problema.3) “Ce lo chiede l’Europa”. Distrutti i partiti tradizionali di massa, con i propri meccanismi di formazione interna e di selezione, la società italiana si è posta il problema di come riemergere da una grande tempesta giudiziaria da un lato e da una grave crisi economica dall’altro. L’ultimo Governo della Prima repubblica che si ricordi è quello di Giuliano Amato, e tuttavia si ebbe anche il Governo Ciampi. Due Governi in perfetta sintonia l’uno con l’altro, eppure diversi: il primo era guidato da un politico e da una maggioranza tradizionale di Quadripartito, il secondo dall’ex Governatore della Banca d’Italia e con l’appoggio più o meno esplicito del PDS, il partito post-comunista. Cos’è accaduto in questo strano biennio se non un ripensamento complessivo dell’intero apparato economico-industriale della nazione italiana? L’idea della privatizzazione delle imprese statali non era nuova ai programmi di governo, e tra 1985 e 1992 si era provveduto alla dismissione di ampie quote di Mediobanca, COMIT, Alitalia, ITALTEL (tutte di proprietà dell’IRI). Dal 1992, sotto le pressioni del sistema finanziario internazionale preoccupato per una possibile insolvenza dello Stato italiano, vengono privatizzate al 100% intere aziende e industri dell’IRI, comprese parti dell’ENI, vero gioiello del sistema italiano. Sostanzialmente si avvia un passaggio di consegne dal sistema capitalistico di Stato abbinato a un ristretto sistema oligopolistico di natura famigliare tipico dell’Italia del Dopoguerra ad un sistema nuovo, inserito nella globalizzazione finanziaria. Emerge quindi evidente un’alleanza strategica tra una nuova governancefinanziaria internazionalizzata e ben inserita nella dialettica economica mondiale (formatasi all’ombra del neoliberismo americano e pronta a cogliere l’occasione dell’apertura dei mercati dovuta al crollo del sistema sovietico) e un’opinione pubblica fomentata contro la partitocrazia (estremo baluardo del vecchio sistema assistenzialistico e statalizzato) già da molto tempo, con la complicità dei sistemi dell’informazione controllati, ovviamente, da quegli stessi apparati economici e finanziari che, un po’ caricaturalmente, possono essere definiti “poteri forti”. Nei Governi Ciampi, Berlusconi, Prodi, D’Alema spicca la presenza di Ministri tecnocrati in ruoli chiave della gestione finanziaria, graditi agli ambienti economici internazionali e sostanzialmente apolitici nella gestione della finanza pubblica. Una delle più gravi colpe della sinistra di oggi, che pure sembra aver messo a fuoco il problema della democratizzazione dei luoghi delle scelte economiche sovranazionali, è quella di aver lasciato a movimenti massimalisti grossolani la critica al sistema finanziario speculativo mondiale.

[1] Dichiarazione di Giuliano Amato rilasciata a Guido Gentili in “La colpa del PSI? Aver imbarcato tutti”, Corriere della Sera, 1 maggio 1992.
[2] Dichiarazione di Massimo D’Alema riportata in PINI M., “Craxi”, Mondadori, Milano, 2006, p.681.

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