Il Circolo Universitario Antonio Greppi è un Circolo ambientale dei Giovani Democratici di Milano.

Il Circolo nasce per fornire a tutti gli studenti e dottorandi, milanesi e fuorisede, un polo di aggregazione sociale, costruzione politica e promozione culturale incentrato sulle competenze e i saperi peculiari del mondo universitario milanese. Il Circolo Universitario è aperto alla partecipazione di tutti gli studenti universitari, senza alcuna discriminazione rispetto all’Università di provenienza.

Il Circolo Universitario è intitolato ad Antonio Greppi, il primo Sindaco della Milano liberata, scelto dal CLN nel 1945 per ricostruire la città dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale e ricordato dalla Cittadinanza per aver adempiuto al difficile compito ponendo la cultura come tratto saliente di una rinascita civica e civile.

domenica 17 febbraio 2013

Università e ricerca, la visione di Bersani


Pier Luigi Bersani risponde alla lettera aperta inviatagli dalla Redazione di ROARS
Gentile Redazione di ROARS,
ho letto con attenzione le indicazioni presenti nella vostra Lettera aperta e ho trovato una convergenza di fondo tra le vostre proposte e il programma di governo del Partito Democratico per l’università e la ricerca, a cui vi rimandiamo per il dettaglio dei singoli aspetti. Il nostro programma, infatti, fa seguito al lavoro portato avanti dal Dipartimento e dal Forum Università e Ricerca del partito nel corso di tre anni difficili, in cui è stato essenziale il dialogo con il mondo dell’università e della ricerca e con quelle reti di analisi, conoscenza e cooperazione ben rappresentate dalla vostra esperienza, che portano le questioni dell’università e della ricerca all’attenzione del dibattito pubblico.

Anzitutto, come abbiamo fatto nel nostro programma, è necessario intendersi sui dati essenziali per formulare una valutazione obiettiva dell’università italiana: partiamo dagli investimenti incongrui nel sistema dell’università e della ricerca e dal dato, certificato dal Rapporto Giarda, per cui istruzione e ricerca sono le uniche voci della composizione del bilancio pubblico scese drasticamente (-5,4%) negli ultimi vent’anni. L’investimento in conoscenza non è un semplice slogan né una scelta di bilancio come le altre: determina, più di ogni altra cosa, la capacità di un Paese di produrre crescita, in termini culturali, economici e sociali.
D’altra parte, la deliberata volontà di tagliare l’istruzione e la ricerca produce decrescita e povertà: come abbiamo visto, può essere mascherata o meno da un alone improprio di “meritocrazia” o dalla supposta volontà di “eccellenza” contro gli sprechi, ma finisce di lasciare soltanto macerie. Questa è la storia dell’ultima legislatura, nella nostra e nella vostra lettura, e della coerenza nella volontà di indebolire il sistema pubblico dell’istruzione e della ricerca. La vicenda dell’ultima legislatura ha chiarito – qualora ce ne fosse bisogno – l’intelligenza della frase attribuita a Derek Bok, ex presidente dell’Università di Harvard: “i costi dell’ignoranza sono ben maggiori dei costi dell’investimento in conoscenza”. Di quali costi stiamo parlando? Ai dati da voi sottolineati, si è aggiunta recentemente la certificazione della fuga dall’università nei termini degli ultimi numeri forniti dal Consiglio Universitario Nazionale: in dieci anni gli immatricolati sono scesi da 338.482 (anno accademico 2003-2004) a 280.144 (2011-2012), con un calo di 58.000 studenti (-17%). Si è successivamente fatto osservare da più parti che tale dato sarebbe influenzato da un improvviso aumento degli immatricolati, dieci anni fa, in seguito alla riforma del 3+2: in realtà, il calo degli studenti è innegabile, e il fatto che nell’ultimo anno sia diminuita di circa il 10% la percentuale dei diplomati che si iscrivono all’università (dati Almalaurea) chiude ogni discussione. Inoltre, in sei anni (2006-2012) il numero dei docenti si è ridotto del 22%. Per una prospettiva complessiva, è anche utile considerare gli standard continentali, ovvero ciò che “ci chiede” l’Europa nella Strategia Europa2020, che prevede il 40% di laureati entro il 2020 nella fascia di età 30-34 anni (nel 2010 eravamo intorno al 20%, con punte assai più basse al Sud e nelle isole, contro una media UE del 32,5%) e la riduzione della dispersione scolastica sotto il 10% (siamo vicini al 19%, anche in questo caso con punte molto più alte nel Sud e nelle isole, mentre la media europea è del 14%). Il Programma nazionale di Riforma del 2011 si è posto, invece, obiettivi minimi (26-27% di laureati, 15-16% di dispersione scolastica), che ci porterebbero nel 2020 a essere indietro addirittura rispetto ai dati europei del 2010.
Sappiamo anche che nel sistema universitario e della ricerca esistono aspetti positivi, da cui ripartire, e proprio per questo è essenziale una netta inversione di tendenza, che sappia infondare fiducia, oltre alla consapevolezza del legame essenziale tra lavoro, industria e ricerca in un Paese avanzato.
Veniamo, nel dettaglio, ai punti da voi toccati.
Partiamo dal diritto allo studio: noi intendiamo partire dal diritto allo studio nella nostra azione di governo, perché è il punto fondamentale per fermare la “fuga dall’università”. Proprio questo tema mette in luce una questione sociale gigantesca, nell’esiguità del nostro sistema di borse di studio rispetto a quello di Francia, Germania e Spagna, nel fatto che negli ultimi cinque anni (al contrario di questi Paesi) siamo andati indietro e non avanti, nello scandalo tutto italiano degli idonei senza borsa, che colpisce soprattutto il Mezzogiorno. La più grande crisi dell’università come bene pubblico riguarda il blocco della mobilità sociale: oggi solo il 10% dei giovani italiani con il padre non diplomato riesce a laurearsi, mentre sono il 40% in Gran Bretagna, il 35% in Francia, il 33% in Spagna. Per garantire davvero il diritto costituzionale a completare gli studi per tutti i capaci e meritevoli “ancorché privi di mezzi”, proponiamo di realizzare un Programma nazionale per il merito e il diritto allo studio, finanziato con 500 milioni, che affianchi gli interventi regionali. Fatti salvi i criteri di merito, il mantenimento dell’assistenza va legato alla regolarità negli studi. Proponiamo, inoltre, un’estensione del sistema di sostegno al diritto allo studio anche agli alloggi (collegi, case degli studenti, affitti calmierati).
Sulla valutazione della ricerca e della didattica, c’è ormai un dibattito di livello europeo a cui dobbiamo saperci legare in modo intelligente. Lo mostra la vicenda francese dell’Aeres, che è stata toccata anche nel Libro Bianco recentemente presentato dal governo (secondo un metodo di dialogo e cooperazione che faremo nostro, perché e’ sbagliato far calare i provvedimenti dall’alto). Il ruolo dell’ANVUR in Italia ha generato numerose critiche. A nostro avviso, le sue competenze vanno chiarite e ricondotte a quelle di agenzia tecnica, basata su uno staff professionale ed esperto in valutazione, con il compito di “tradurre” tecnicamente gli indirizzi delle politiche di governo. Escludendo una miriade di micro-competenze, l’Agenzia deve esercitare solo i compiti connessi con la valutazione della ricerca e la gestione dell’accreditamento della didattica, senza generare inutili appesantimenti burocratici. Con una bussola fondamentale: l’ANVUR non può essere utilizzata per sostituire governo e Parlamento nell’adozione delle decisioni strategiche sul sistema universitario.
Del resto il rischio di accentramento è una delle pesanti eredità dell’ultima “riforma” e dei suoi deliri ipernormativi. Quasi cinquanta decreti ministeriali e legislativi hanno minuziosamente regolamentato la vita degli Atenei. Per circa due anni, le università hanno passato il proprio tempo a (ri)costruirsi, prive delle risorse per ripartire e, spesso, per sopravvivere. Il cammino dell’autonomia intrapreso dall’Italia è stato erroneamente abbandonato, invece di essere corretto nella direzione di un’autonomia responsabile. Per questo la riduzione del peso normativo sarà uno degli obiettivi della nostra azione di governo, che in quest’ambito partirà da modifiche profonde alla legge Gelmini, operando uno smantellamento delle norme anti-autonomistiche. Per dare gambe all’autonomia è necessario ripristinare le risorse del FFO del 2012, rimediando al taglio di 300 milioni operato dal governo Monti, al quale ci siamo opposti invano.
Sul reclutamento, affrontiamo un punto dirimente, che si riflette sulle prospettive di quella “generazione perduta” senza la quale è impossibile pensare a una ripresa dell’Italia. Partiamo da un’idea di buon senso: a poco più di 30 anni non ci si può definire “ragazzi”, si è giovani uomini e donne. E gli uomini e le donne devono avere la possibilità di fare di un talento – la ricerca e l’insegnamento – l’impegno della loro vita. Non possono restare per decenni in un limbo. Tre sono i presupposti della nostra politica: a) rimuovere gli attuali vincoli al turn-over e completare rapidamente il piano associati, perché la paralisi nel reclutamento ha portato a un blocco complessivo del sistema; b) superare il circuito vizioso della precarietà e dell’incertezza; c) massima rigidità e vigilanza sulle attività gratuite nell’università, perché il lavoro accademico deve essere retribuito e svolto in modo dignitoso, altrimenti non può di certo essere incentivante.
È poi essenziale una semplificazione generale, che concentri le figure post-doc in due tipologie: un contratto unico di ricerca e posizioni di professore junior in tenure track (percorsi a tempo determinato che prevedano fin dall’inizio la possibilità di arrivare, previe periodiche valutazioni favorevoli, all’inserimento stabile nei ruoli universitari). È inoltre essenziale migliorare la mobilità interna, per rendere il sistema più attraente e meno corporativo.
Infine, veniamo alla considerazione della formazione e della ricerca pubblica come interesse nazionale. “Niente favole” è l’espressione con cui il Partito Democratico ha inteso differenziarsi rispetto ai suoi avversari, ed è l’espressione che meglio si adatta alla considerazione di questi temi. È una favola – e non un Progetto – credere che la riqualificazione complessiva del sistema possa basarsi sull’adozione delle ricette fallite della destra inglese sulle tasse universitarie e su sperimentazioni rivolte a una piccola minoranza (magari quella che, secondo alcune ideologie in totale contraddizione con la Strategia Europa2020, si ritiene “degna” dell’acquisizione di un titolo accademico). Come dimostrano le politiche con cui gli altri Paesi europei hanno cercato di reagire alla crisi, raccontare di voler puntare sull’università e sulla ricerca a costo zero è una favola. La limitazione cieca della spesa pubblica in istruzione e ricerca non può essere una strategia di sviluppo per l’Italia. La ricerca ha già pagato pesanti costi di aggiustamento e oggi, pur nei limiti dell’azione disegnati dagli attuali vincoli, le risorse per una reale inversione di tendenza sono fondamentali. Dovranno essere reperite attraverso i risparmi sull’interesse del debito e attraverso la “revisione intelligente” delle voci di spesa pubblica aumentate negli ultimi vent’anni.
Spero che questa mia risposta possa essere di aiuto per la vostra attività, vi ringrazio per l’attenzione e vi invio i miei saluti più’ cordiali.

Nessun commento:

Posta un commento